Un’assenza di luce
Forse avevo bisogno di una sera a Cattaragna. Forse avevo bisogno di uscire di casa, di passare dalla piazzetta del Canto, dove la strada che attraversa il paese svolta a sinistra e inizia a salire, in un angolo, un canto appunto. Forse avevo bisogno di vedere una luce spenta, o meglio l’assenza di una luce per ricordare. Perché quando sei in città, preso da mille impegni, è troppo facile non pensare, mettere da parte rimandando a un momento di quiete. Forse ci voleva una serata come questa, l’assenza di una luce, qualche parola scambiata con Pierino, per ricordare, per farsi travolgere dalla malinconia e dal dolore ancora troppo fresco per essere sopito, dal dispiacere.
Pippo non c’è più. Peppino per qualcuno, Pippo quasi per tutti. Anche per me. Giuseppe Bernardi solo sui documenti e per gli sconosciuti. Vorrei cercare di non essere banale, mi sembrerebbe di fargli un torto. Però proprio in questo momento che la sento più forte, mi chiedo se ci sia qualcosa di banale o di scontato o di noioso nel sentire semplicemente la mancanza di qualcuno, una mancanza che ti sembra di avere un pugno chiuso al posto del cuore, e preme dentro.
La vita ci ha messo circa un anno a portarlo via, lui che era uomo di Cattaragna e che a Cattaragna aveva messo in conto di starci per tutta la vita. Ci è tornato e adesso è qui, nel cimitero dove oggi, assistiti da un bel sole caldo e dal cielo sereno, abbiamo partecipato alla messa dei 1° novembre, che vale già anche per domani, il giorno dei morti. Proprio lui, che la messa se la sarebbe scansata volentieri, costretto a partecipare, a questa e a quelle che verranno. Ci ho pensato stamattina al cimitero, mi è sembrato un contrappasso troppo crudele. Ho sorriso, immaginando la sua risposta, che sarebbe stata una bestemmia delle sue, accompagnata da una risata delle sue.
Ne sono certo.
Quando se n’è andato ho cominciato, come penso tanti di noi, a ricordare una vita passata insieme a Cattaragna. Poi mi sono accorto che i ricordi si sovrapponevano, si accavallavano, e allora mi sono concentrato sulle volte in cui ci siamo incontrati lontano dal paese, eventi decisamente più rari.
Il più lontano era a Piacenza, tanti anni fa, quando c’era sua madre, la Leviggia, in ospedale. Ricordo che ci eravamo incontrati il Via XXIV maggio e avevamo deciso di fare una passeggiata, per scambiare due parole. Per quelli di noi che conoscono la frequenza dei suoi passi, sarà facile immaginare che il giro intorno alle mura della caserma è stato fatto con un tempo buono per le qualificazioni ai giochi olimpici. Dico solo che quando abbiamo chiuso il perimetro ero sudato. Per fortuna siamo andati avanti a parlare da fermi, così ho rifiatato.
Il secondo ricordo lontano da Cattaragna è una sera a Marsaglia nell’estate dei miei vent’anni o giù di lì. Una sera in cui siamo scesi in macchina con Pierino e Pippo. Un giro di un paio d’ore, non di più, ma una serata che ricordo con grande gioia e affetto.
L’ultimo ricordo risale sempre a quel periodo, a quegli anni, un sabato sera in cui, alla discoteca della Rocca D’Aveto eravamo in tanti, e c’era anche lui a ballare insieme a noi.
Poi gli anni sono passati e i suoi spostamenti fuori dal paese sono stati sempre più rari, fino ad azzerarsi quasi del tutto, per ritornare frequenti purtroppo solo nell’ultimo anno a causa dei problemi di salute. Innumerevoli le occasioni di incontro prima all’osteria e poi al circolo, le partite di calcio viste insieme a casa sua, in una stanza che già a metà del primo tempo si trasformava in una castagnera, ma proprio con gli occhi arrossati che bruciano. So che sto esagerando un po’, lo faccio solo per cercare di trasmettere meno tristezza e qualche sorriso, perché questo credo che si meriti da me.
Per fare un discorso più serio, penso che se ne sia andato un uomo che aveva fatto i conti con la sua solitudine, ne aveva sofferto e molto, e anche certi momenti bui del suo carattere ne erano stati la conseguenza. Ma alla fine l’aveva accettata, senza rassegnazione ma come presa di coscienza.
Cattaragna era la sua casa, la casa in cui trascorrere tutta la vita.
Se si può trovare un lato positivo in una malattia così crudele, e c’è da sforzarsi molto, è che proprio la malattia, e il primo periodo in ospedale l’autunno scorso, gli hanno fatto capire che non era solo come aveva pensato. Quando sono andato a vedere come stava la prima volta, a qualche giorno dall’intervento, mi ha accolto molto sorridente ed energico, e la prima cosa che mi ha detto è stata “A ghé ‘a cua”, c’è la coda. Con grande sorpresa, si era ritrovato ad avere la gente di Cattaragna in corridoio durante gli orari di visita, in tanti che si mettevano in fila per andare a trovarlo.
E non se l’aspettava. Questo non l’aveva messo in conto.
E ne era immensamente felice.
Per la prima volta da quando l’ho conosciuto, che è una vita, ho letto nei suoi occhi uno stupore misto a gioia che da troppo tempo proprio in quei occhi mancava. Ed ero contento anch’io.
Adesso non è che mi manca: non mi sembra vero che non ci sia più.
Ma tornare a Cattaragna è così, devi mettere in conto che la malinconia è in agguato, ti aspetta, dal Canto o in qualche tramezza, e sai che la dovrai affrontare. Ogni volta. Non vedo l’ora che passi del tempo, che i ricordi del lutto perdano i contorni e diventino più radi, che il dolore si attenui fino a sparire, che restino solo i ricordi belli e la malinconia lasci il posto alla nostalgia, e al sorriso. È già successo per altri che portiamo nel cuore.
Adesso è presto, lo so.
Nel caso di Pippo forse ho trovato un rimedio. Ho preso spunto dal giorno del suo funerale (gh’era ‘a cua anche quel giorno lì!), ho preso spunto dal momento in cui è stato ricordato come fervente uomo di chiesa. E ho visto che in tanti, seduti nelle panche o in piedi in fondo, in tanti abbiamo sorriso, inaspettatamente. Non siamo riusciti a trattenerci. Da allora, quando penso a Pippo e sono triste, me lo immagino alle porte del Paradiso, davanti a San Pietro, con il cappello calcato in testa, mentre si guarda intorno, forse non sa dove spegnere la sigaretta. Poi riconosce San Pietro e dice due parole, due parole che solo lui potrebbe permettersi di dire anche in quel momento, due parole che potrebbero sembrare un’imprecazione a una lettura superficiale.
Due parole delle sue, che mi immagino gli saranno concesse con un sorriso di comprensione. Prima di una risata delle sue.
E così la tristezza mi passa, almeno un po’.
Maurizio Caldini
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