L’anno scorso, per l’ultimo numero di Montagna Nostra, quello che esce prima di Natale, avevo scritto un articolo intitolato “Ricordi di Natale a Cattaragna”. Era un breve riassunto dei ricordi, di genitori, familiari e amici, di quanto succedeva a Cattaragna la vigilia di Natale di tanti anni fa. L’intento di quelle mie poche righe era di trasferirli a mia volta ai lettori. Mai avrei sperato in tanta fortuna, cioè di risvegliare un ricordo in qualcuno di noi che la vita di quegli anni l’aveva vissuta veramente, e fargli venire voglia di condividerlo.
La nostra Fiorina Fazari (la Fiò o Fiurinna, come la chiamiamo noi, classe 1928) ha voluto scrivermi una lettera, stimolata proprio da quel racconto, per offrirmi la sua testimonianza diretta, per aggiungere altri preziosi dettagli e rendere il racconto enormemente più interessante e toccante. Ancora più toccante perché indirettamente ci ricorda la sorella Caterina (“Catòn”) che se n’è andata solo poche settimane fa, di sicuro con il conforto della fede che l’ha sempre accompagnata e sostenuta negli anni.
Ho conservato questa lettera, che la Fiò mi ha dato l’estate scorsa, proprio per inserirla in questo numero. Io ho avuto la straordinaria fortuna di sentirla letta da lei, se si potesse avere un cd come inserto a questo numero del giornale… Vi assicuro che è stata un’esperienza impagabile, soprattutto per i commenti inseriti durante la lettura e che purtroppo non sono presenti qui. Una lettura che ci ha fatto ridere e piangere, come dovrebbe essere per tutti i ricordi preziosi, quelli che regalano emozioni vere ed intense.
Provo a regalarle anche a chi di voi vorrà dedicare qualche minuto a queste righe, unendomi agli auguri di Fiorina di un felice Natale e, aggiungo, di ogni bene a tutti per il nuovo anno che arriva.
Caro Mauri, l’ultimo giornalino di Montagna Nostra (4/2013, ndr) è stato un susseguirsi di cose realmente accadute, i bei ricordi di tempi lontani, gli anni della mia e della nostra infanzia: quella della mia generazione, date le tante primavere (come si suol dire). Ma forse è meglio, anziché “primavere”, chiamarle “i tanti inverni”, o meglio “i tanti giorni di Natale” passati: i ricordi di Natale a Cattaragna, come tu hai descritto sul bollettino, ricordi che i tuoi genitori ti hanno raccontato, vissuti in un periodo più recente rispetto al mio, data la loro più giovane età, ma comunque vissuti in un’epoca molto vicina alla mia.
Caro Mauri, la mia infanzia, o meglio la nostra infanzia perché eravamo in tre sorelle… Come aspettavamo il Natale! Natale si aspettava tutti uguali, non c’erano distinzioni di “lord” ricchi: eravamo tutti uguali, mangiavamo tutti le stesse cose, al mattino la polenta di castagne, alla sera la minestra che non era neanche tanto di sguassu, che vuol dire neanche “tanto abbastanza”, ma ci accontentavamo di quello che ci davano, perché non c’era altro; aggiungevano anche un po’ di pane, e formaggio, poco.
A Natale aspettavamo la sera, quando alle undici iniziava a suonare “u prummu”, “u scicondu”, “u tersu” e “i reciammi” (il primo, il secondo, il terzo e i richiami). Tutti quanti andavamo a messa. Solo i gatti rimanevano a casa, vicino alla stufa che il nonno aveva riempito di legna per poterci riscaldare al ritorno. Andavamo per la strada contenti, con un freddo pungente e il cielo quasi stellato. Poi, tutti composti nelle nostre panche, si aspettava l’inizio della messa.
Atmosfera magica: la chiesa tutta al buio, una mano tirava le tende dell’altare aprendole, spuntavano gli uomini in fila, ognuno con una candela accesa in mano. Venivano avanti, iniziando a cantare forte: “È natu sempre virginu, virginu…” e avanzando si allineavano ai lati lasciando spazio al Prete, che arrivava adagio adagio con il Bambin Gesù in braccio e, salendo i gradini dell’altare, lo metteva sopra il tabernacolo. Da questo momento iniziava la funzione, o meglio la messa di mezzanotte. I canti erano tanti: “Tu scendi dalle stelle, “Astro del ciel”… La messa continuava e si cantava tutti insieme. Poi la messa finiva con il bacio a Gesù Bambino, si andava avanti tutti in fila; poi la benedizione, e si tornava a casa.
Ma lo spettacolo più bello era aprendo la porta della chiesa per uscire: con il luccichio delle luci, fuori si vedevano scendere i fiocchi di neve, che quando eravamo andati a messa era ancora sereno. Eravamo contente, andavamo avanti e sguaramu (calpestavamo) tutta la neve senza sentire il freddo: uno spettacolo così, difficilmente lo puoi dimenticare.
E la sera, anzi la notte finiva così. Ma prima di andare a letto, mettevamo la calza sotto la panca, come hai detto tu, Mauri: la calza di lana di pecora, con la speranza di trovare qualcosa dentro; non vedevamo ora che venisse giorno per andare a vedere se il buon Gesù Bambino (detto mamma) avesse messo qualcosa.
Ecco che siamo arrivati al mandarino, Mauri. È proprio vero: un mandarino, poi un pezzetto di torrone e una caramella perché eravamo in tre. Ma ti devo dire che c’erano altre due cose: una noce e un pugnetto di nocciole. Per mettere la noce, la mamma si alzava al mattino presto, una mattina di fine settembre, andava dove c’era la pianta di noce per vedere se la rugiada e l’umidità della notte avessero fatto cadere per terra qualche noce; le raccoglieva e le custodiva per metterle nella calza. Queste sono le cose che si devono apprezzare: anche se la nostra calza era umile l’apprezzavamo, eravamo felici di quello che avevamo.
Il giorno di Natale era un giorno di festa. Al mattino si andava di nuovo a messa, ci vestivamo di quel poco che avevamo, ma con una cosina nuova che portava fortuna: un velo o un foularino da mettere in testa, secondo il nostro borsellino molto scarso. Ma eravamo felici e contenti.
Ti descrivo il nostro pranzo natalizio: a mezzogiorno mia mamma faceva la polenta gialla, e faceva friggere nella ticcia (teglia) dei cotechini di maiale: li tagliava a metà, li apriva e li faceva friggere così. Noi, sedute sulla panca, aspettavamo che fosse pronta. Mia mamma faceva le fette di polenta, e sopra ogni fetta ci metteva questo salamino fritto, poi dava in mano una fetta a tutti, anche al nonno. E il nonno mangiava questa polenta con il gatto sopra una spalla. Il gatto non lo disturbava e lui mangiava tutto storto per lasciare il gatto sulla spalla; ogni tanto gli dava un po’ di polenta, noi non gli dicevamo niente perché a lui piaceva così. Poi la mamma ci dava un grappolino di uva. L’aveva conservata dalla vendemmia di settembre e attaccata ai chiodi di una trave, in una stanza un po’ ritirata, nascosta. L’uva era un po’ appassita, aveva trascorso tre mesi appesa al chiodo. Ma per noi era una cosa buonissima. Dopo l’uva, si mangiava la rimanenza del pezzetto di torrone che avevamo trovato nella calza.
Ecco Mauri, questo era il nostro Natale.
Oggigiorno non si capisce più niente, il mondo è cambiato. Con l’arrivo del duemila è iniziato anche il terzo millennio, la tecnologia moderna ha rivoluzionato il mondo: computer, fax, i telefonini… Gente che cammina per la strada parlando da sola, oppure con un piccolo filino all’orecchio ascolta la musica che le trasmette uno scatolino che tiene in mano, non più grosso di una scatola di fiammiferi. Noi non siamo più capaci di seguire queste tecnologie moderne, il nostro cervello ormai assopito non riesce più a seguirle. Ed è anche giusto che sia così, sennò cosa significherebbe aver raggiunto il terzo millennio?
La mia generazione ormai si sta diradando piano piano, lasciando spazio a voi della nuova generazione e buon proseguimento con le tecniche moderne!
Noi ritorniamo con la nostra semplicità alle nostre tramezze sassose, con le nostre sòcchere (zoccoli) e le calze di lana di pecora nei piedi, con i chiodi sotto, e le borchie. E i chiodi che tenevano la tumèra (striscia di cuoio) per infilare i piedi, quei chiodi che camminando ci battevano nelle caviglie, e il sangue ci scorreva fino ai piedi.
Buon Natale!!
Fiorina Fazari e Maurizio Caldini
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